FANTASCIENZA
Tutto ciò che ruota come Uno
Il destino
ultimo
- E' un lavoro di... ma è pur sempre un lavoro.-
Ripeteva a sé stesso questa constatazione almeno una volta al giorno.
Lo diceva ad alta voce per darsi la spinta.
Imbarcare e sbarcare: Donne e uomini che barcollavano sulla rampa di accesso in preda alle vertigini, con gli organi del senso dell'equilibrio sconvolti dalle accelerazioni e decelerazioni che avevano subito nel corso della loro vita.
Facce anemiche esposte per troppo tempo alle tempeste solari, le cui radiazioni avevano rallentato la creazione di globuli rossi.
E poi i bambini, sopra ai quali passava con una rapida occhiata per evitare di incontrare i loro sguardi.
Erano attratti dalla sua tuta aces - advanced crew escape suit - utilizzata per i lanci e gli atterraggi, sapevano che era il comandante, si fidavano di lui.
Le tute indossate dall'equipaggio erano di colore blu cobalto con lo stemma rotondo della compagnia aerospaziale privata:- Lucky Space Ltd -. Avevano il pregio di proteggere gli astronauti dal bombardamento di radiazioni cosmiche a cui erano sottoposti e, al contempo, permettevano ampia libertà di movimento.
- E' un lavoro di... ma è pur sempre un lavoro,- sussurrava a sé stesso.
Una decina, dei quaranta passeggeri che stavano imbarcando, procedeva a fatica, aiutandosi con stampelle in titanio. Altri tre, tra i quali una ragazzina dai lunghissimi capelli biondo cenere, erano costretti a tricicli elettrici.
Osteoporosi e perdita della massa muscolare erano le più comuni alterazioni prodotte dalla microgravità del Pianeta Marte, e le terapie a volte funzionavano, a volte no.
Tutte quelle persone volevano ritornare sulla Terra, ma ognuna di loro, se non i bambini nati sul Pianeta Rosso, aveva aderito al contratto-tipo e firmato in calce la clausola: - VIAGGIO DI NON RITORNO.-
Era lo stesso contratto che molti decenni prima avevano firmato i coloni del Progetto Mars Forever.
Le leggi internazionali impedivano ai firmatari, e ai loro figli nati su Marte, di ritornare alla Madre Terra, ma non impedivano di recarsi sulle colonie lunari, e da questa possibilità aveva preso vita il business.
Plastic card con i numeri di Social Security falsificati che superavano l'esame di convalida ai posti di controllo. Imbarchi clandestini su navi-cargo interplanetarie. Centinaia di migliaia di yudoru, la valuta interplanetaria, che passavano dalle mani di gente disperata a quelle di traghettatori senza scrupoli.
E lui era uno di quelli, un traghettatore senza scrupoli, un figlio di puttana.
Un tale, con degli occhiali da sole e il colletto del giaccone che gli copriva i lati del volto, stava scrivendo qualcosa su un tablet che reggeva nella mano sinistra.
- Ehi, tu!-
Gordon, il comandante, gli afferrò una manica, strattonandolo.
- Non è permesso. Spegnilo.-
-Mi scusi, comandante. Era l'ultimo messaggio a mia figlia.-
- Spegnilo, subito, o ti sbatto fuori.-
Non l'avrebbe sbattuto fuori, l'avrebbe consegnato a Clark, l'americano che si occupava della sicurezza di bordo, che l'avrebbe tolto di mezzo in un luogo appartato.
Il passeggero spense il tablet.
Dopo che l'ultimo della fila era salito sulla nave, Nicolas, il co-pilota, pigiò il bottone che comandava la chiusura del portellone di accesso, e si apprestarono a sistemare i passeggeri nella stiva di poppa della Mohawk. Era questo il nome della nave-cargo interplanetaria.
Il comandante Gordon aiutò la ragazzina dai capelli biondo cenere a sollevarsi dal triciclo e a sedersi su uno dei piccoli sedili ergonomici sistemati lungo la paratia interna della stiva. Era un ambiente circolare, un anello pressurizzato che correva intorno ai serbatoi di propellente.
Le normative prevedevano che la stiva delle navi-cargo dovesse essere attrezzata per ospitare eventuali passeggeri in caso di sfollamento di emergenza delle colonie planetarie. Questo, naturalmente, aveva favorito gli imbarchi clandestini.
Gordon scelse per la ragazzina uno dei sedili che permettevano di vedere lo spazio esterno da uno degli oblò ovoidali disposti sulla fiancata della nave spaziale.
- Così ti godrai lo spettacolo,- le sussurrò, allacciandole le cinture di sicurezza.
- Grazie, comandante. Per me è la prima volta. Sono nata su Marte e non ho mai volato.-
- Allora sei una extraterrestre dai lunghi capelli biondi. Un'aliena affascinate e pericolosa.-
La ragazzina sorrise.
- Quali sono i tuoi genitori?- le chiese.
- Sono da sola, mio fratello e i miei genitori rimangono nella colonia. Loro sono in salute, si sono adattati. E mio fratello ha la ragazza, anche lei è nata su Marte e sono felici. Sono io quella che ha creato problemi. Le mie ossa non mi sostengono e i muscoli delle cosce... - non finì la frase, scostò lo sguardo arrossendo.
- Capisco. Comunque tu non hai creato nessun problema. Vedrai che sulla Terra ti riprenderai,- le rispose, e aggiunse: - Ti rivelo un segreto. I ragazzi terrestri vanno pazzi per le marziane.-
Le baciò la fronte e lei tornò ad arrossire.
- Tieni la bocca chiusa quando senti accendersi i propulsori, o rischi di morderti la lingua. Olla kalla?- Era l'espressione marziana per okay.
Lei annuì. -Grazie, comandante.-
Gordon salì lungo la scaletta che conduceva al modulo di comando.
- Trenta muniti a tempo zero,- lo informò Philippe, il giovane pilota oriundo francese.
Gordon si sistemò sul sedile centrale, leggermente arretrato, destinato al comandante, e Keno, l'ingegnere tedesco di bordo, attirò la sua attenzione sventagliando una cartellina.
- Ho fatto sostituire tre pannelli dello scudo termico. Se vuoi controllare la fattura...-
Gordon rispose che gli avrebbe dato un'occhiata dopo il lancio, e accese il transponder che teneva alla cintura della tuta aces.
Era una scatoletta di forma quadrata in plastica bianco avorio, misurava all'incirca sei centimetri di lato e uno di spessore.
Gordon pigiò il bottoncino sul lato destro della scatoletta e la luce verde intermittente lo informò che il transponder psycho-messenger si era messo in funzione.
Da quel momento in poi, avrebbe comunicato con i membri del suo equipaggio, con il Centro di Controllo di Marte e con i computer di bordo attraverso il transponder di sinapsi neuronali collegato al biochip impiantato nel suo cervello.
Il suo primo pensiero fu: - Keno, passami il termos del caffè.-
Poi piegò ad uncino il dito indice per interrompere la comunicazione in uscita dei suoi impulsi elettromagnetici cerebrali.
Per riattivarla, gli sarebbe bastato un altro breve e volontario movimento dell'indice.
Gordon sorseggiò il caffè tiepido e molto zuccherato. Era l'ultima occasione per gustarsi un caffè senza l'utilizzo di una zero gravity coffee cup. Per tre mesi l'avrebbe bevuto in assenza di gravità.
Tre mesi per raggiungere la Madre Terra. La tecnologia avanzata dei propulsori ionici aveva ridotto drasticamente la durata dei viaggi interplanetari.
Clark, l'americano che si occupava della sicurezza, e Nicolas, il co-pilota italiano, li raggiunsero nel modulo di comando per sistemarsi nei sedili e indossare i caschi, mentre Philippe connetteva i computer di bordo a quelli del Centro di Controllo.
La cupola dell'hangar in cui sostava la nave spaziale si aprì rivelando il cielo notturno a due lune del pianeta Marte.
- 12-11-10...- Gli astronauti abbassarono le visiere laminate in oro e Gordon controllò per l'ennesima volta che i dati del suo computer collimassero con quelli dei computer del Centro di Controllo Marziano.
Quando il countdown scandì la cifra -6- i quattro endoreattori a propulsione chimica presero vita e nei restanti cinque secondi raggiunsero il massimo della potenza.
Staccarsi dall'abbraccio di Marte, la cui gravità era di molto inferiore a quella del Pianeta Terra, era un gioco da ragazzi per la Mohawk, ma pur sempre uno dei momenti più pericolosi del lungo viaggio.
La nave spaziale era di forma conica con la punta arrotondata, la sua lunghezza, fuori tutto, era di cinquantasei metri. Oltre ai vettori a idrogeno e ossigeno per il lancio, era dotata di un propulsore ionico che Philippe avviò quando lasciarono la rarefatta atmosfera arancione del Pianeta Rosso.
Sandra, la ragazzina dai capelli biondi, che non aveva mai volato, si era immaginata il lancio di una nave spaziale come qualcosa di molto più spaventevole. Le vibrazioni e il frastuono prodotto dai motori, che lei sapeva chiamarsi lanciatori, non l'avevano affatto impressionata.
Le era piaciuto sentirsi spingere contro il sedile. E aveva sorriso nello scoprire che anche le teste dei suoi compagni di viaggio non riuscivano a stare ferme e dondolavano sul collo, colte dal tremito, come le bambole quando lei le scuoteva da bambina.
Ricordò le parole del comandante e, dopo aver sorriso, tenne la bocca chiusa per non mordersi la lingua.
Poi, ad un tratto tutto cambiò.
Sentì come un senso di liberazione, come se in una frazione di secondo fosse guarita dalla sua malattia. Il suo cervello le stava dicendo di non essere preparato ad una cosa del genere, eppure stava accadendo.
Le cinture di sicurezza la trattennero sul sedile, trattennero il suo corpo, ma non le sue braccia, né i suoi capelli che iniziarono una lenta, elegante danza.
Il signore con gli occhiali da sole, che le stava seduto vicino, disse:- Gravità zero. Siamo usciti dall'orbita.- E le persone intorno a lei applaudirono. Era così che si faceva, l'aveva sentito dire. Provarlo era tutta un'altra cosa.
Le cuccette disposte sul soffitto dell'astronave adesso avevano un senso.
Quel viaggio prometteva un sacco di divertimenti, e il comandante le era davvero simpatico. Le aveva persino dato un bacio sulla fronte. Le sarebbe piaciuto ricambiare quella gentilezza, magari con un regalo. Cosa avrebbe potuto regalargli? Aveva ben poco con sé.
- Tutto ciò che ruota come uno.-
Era la frase preferita del suo istruttore di volo ed erano le parole con le quali gli antichi Greci definivano l'Universo.
- Sulla nave, non dovete mai dimenticare di appartenere ad un gruppo. La vostra sopravvivenza è legata a quella degli altri. Ai dispositivi di bordo, alla vostra rotta, all'Universo che vi circonda, e che ruota come uno...-
Belle parole, ma la realtà era molto diversa. Lontana, da quella nobile affermazione, quanto una galassia sconosciuta.
Non poteva affermare di essersi trovato coinvolto nel business senza nemmeno essersene reso conto. Eccome che se n'era reso conto.
- Vedrai che tutto filerà liscio come l'olio,- lo aveva rassicurato il suo diretto superiore, il responsabile del personale di volo.
Gordon si era chiesto parecchie volte se i vertici della compagnia aerospaziale, per la quale lavorava, fossero a conoscenza del business, e ne aveva discusso con i membri del suo equipaggio, che a loro volta erano stati invitati a partecipare all'affare.
Nessuno di loro aveva le idee ben chiare su quanto stesse accadendo all'interno della compagnia. Avevano così deciso di avviare delle discrete indagini personali, ma non ne avevano cavato un ragno dal buco. L'unica cosa che erano riusciti a scoprire, era che se facevi troppe domande o ti rifiutavi di accogliere a bordo dei passeggeri clandestini, ad un certo punto sparivi.
Era accaduto a dei loro colleghi, si diceva, spariti nel nulla insieme alle loro famiglie. Era questa la voce che girava nei corridoi del personale di volo della Lucky Space Ltd.
Se fosse una voce convalidata da prove certe, Gordon e i suoi non erano riusciti a scoprirlo. Per farlo, avrebbero dovuto richiedere un colloquio con il responsabile della sicurezza della compagnia aerospaziale, e questo significava esporsi personalmente.
Il comandante della Mohawk e i membri dell'equipaggio avevano deciso di non esporsi.
Gordon aveva famiglia, una moglie e due figli ai quali aveva promesso che entro l'anno successivo si sarebbero trasferiti in una Zona Protetta.
Sul Pianeta Terra, le Zone Protette erano rigogliose oasi di verde che soltanto pochi potevano permettersi.
A Gordon piaceva mantenere le promesse.
- E' il momento di servire il caffè,- disse in tono grave il comandante della Mohawk.
- La gentilezza riservata ai condannati,- ribatté a bassa voce Keno, l'ingegnere di bordo, togliendosi il casco.
- Stai zitto!- lo aggredì Philippe in tono caustico. - E' già abbastanza difficile,- aggiunse, alzandosi dal sedile nel modulo di comando.
Al caffè, destinato ai passeggeri, era stata aggiunta della benzodiazepine, un farmaco ipnotico-sedativo, e un anti-dolorifico oppiaceo che non li avrebbe uccisi, ma lenito la breve, inevitabile sofferenza.
Nel corso dei loro viaggi interplanetari, Gordon e i suoi uomini avevano constatato che i controlli in uscita dal Pianeta Rosso erano tutt'altro che rigidi. Non era difficile eludere le verifiche e corrompere i funzionari doganali.
Era sempre stato così, insisteva Keno, il più anziano dell'equipaggio.
All'arrivo sulla Terra, invece, i controlli si infittivano. Per passare attraverso le maglie della rete dei Border Control Terrestri dovevi essere per lo meno un diplomatico o avere agganci politici, oppure possedere tanta di quella valuta da ungere i tapis roulant degli spaceport, e provocare una totale, quanto momentanea, cecità ai funzionari e ai sofisticati scanner delle Agenzie Doganali.
Era un'assurdità.
Per logica, sarebbe dovuto essere il contrario. Gli spaceport di Marte erano molto meno numerosi e frequentati di quelli terrestri, quindi più facili da controllare.
Eppure, non era difficile immaginare il perché di questa incongruenza.
Nessuno si preoccupava della sorte di chi non accettava compromessi o di quelli che non erano riusciti ad adattarsi a una nuova vita su un altro pianeta, e che non appartenevano alle categorie sociali elevate. L'importante era che non si rifacessero vedere sulla Terra.
Il comandante Gordon era convinto che non fosse un problema di sovrappopolazione, che comunque era uno dei tabù di cui non bisognava mai parlare, quanto un problema di organizzazione. L'umanità, nonostante i passi avanti, rischiava di perdersi nell'infinito oceano dell'indifferenza.
Gordon non ricordava dove avesse letto quest'ultima asserzione. Forse era stato su uno di quei vecchi testi antropologici che gli aveva passato il suo anziano istruttore di volo. Attraverso i quali era venuto a conoscenza della Teoria della Setta del Potere Grigio, una presunta organizzazione segreta che aspirava al controllo della mente di ogni essere umano.
Scrollò il capo per distogliersi dai suoi pensieri e controllò che il transponder psycho-messenger fosse disattivato.
Insieme a Clark si perse nel guardare il monitor collegato alle telecamere della stiva di poppa.
La ragazzina, dai lunghi capelli biondi e i muscoli delle cosce rattrappiti, aveva consegnato qualcosa a Nicolas, che aveva riposto il piccolo oggetto scuro nel taschino della tuta e poi aveva continuato a servire il caffè ai passeggeri.
- Cosa ti ha dato?- domandò il comandante della nave, riattivando il suo psycho-messenger e comunicando con quello del co-pilota.
- Niente, comandante. Niente di importante.-
- Ti ho chiesto cosa ti ha consegnato la ragazzina,- insistette Gordon, aveva il dubbio che non si fosse trattato di un oggetto ma di un piccolo animale.
- Un pupazzetto fatto sulla Terra, con i capelli in fibra vegetale e il corpo di caucciù.-
Clark si alzò dal suo sedile.
-Vado a indossare la tuta pressurizzata,- lo informò a voce, e Gordon annuì.
Era di competenza del responsabile della sicurezza ripulire la stiva di poppa, e gettare i cadaveri nello spazio, dopo che il comandante della nave aveva inserito il comando di depressurizzazione.
In assenza di pressione, i corpi dei passeggeri non sarebbero esplosi, come molti credevano, ma si sarebbero gonfiati a dismisura.
La distrazione non aveva dato modo a Gordon di percepire quanto il co-pilota aveva sussurrato nei suoi pensieri un attimo prima:- E' un regalo per lei, comandante.-
Come se avesse intuito che quei fluttuanti capelli biondi volevano comunicargli qualcosa, Gordon non riusciva a scostare lo sguardo dal monitor. Dall'immagine di quella ragazzina che avrebbe potuto essere sua figlia.
Rimase da solo nel modulo di comando.
C'era il bottone rosso da schiacciare...